"Nella Bellezza ti troverò": un affaccio dal teatro della vita al palcoscenico dell'altrove.
Recensione al dipinto di Giampiero Murgia.
di Francesca Callipari
Il mistero della vita
penetra nel mistero della morte,
il giorno chiassoso
tace davanti al silenzio delle stelle.
Tagore
Sin dalla notte dei tempi il mistero della vita ci appare come l'enigma insolubile di fronte al quale siamo posti. Angosciati e disorientati, ricerchiamo da secoli risposte che possano alleviare la nostra sofferenza, nell'assurdo tentativo di colmare quel senso di vuoto che attanaglia ognuno di noi, in balia di un destino ignoto e inevitabile. L'ineluttabilità della morte palesa la fugacità dell'esistenza, la nostra transitorietà e la dissolvenza dei legami con gli altri. Una prospettiva di fronte alla quale tutto sembra perdere senso: la vita, noi stessi e le nostre azioni terrene.
È così che troviamo da sempre conforto proprio nell'Arte attraverso la quale abbiamo costruito una sorta di atlante immaginifico delle possibili realtà ultra-terrene che ci attendono. Un ventaglio di prospettive rassicuranti in grado di aiutarci ad accogliere il dolore profondo per la perdita delle persone amate, nonché l'idea della nostra stessa fine.
Giampiero Murgia, con il suo nuovo dipinto "Nella bellezza ti ritroverò", giunge al nucleo più profondo di queste riflessioni. Facendo immergere l'osservatore nell'intensità del suo blu oltremare, lo prepara, immediatamente, ad un'atmosfera silenziosa e serena, misteriosa e spirituale.
Tra bagliori diffusi e tenebre, l'artista pone al centro del quadro la figura di un uomo di spalle, rievocando quantomeno visivamente, il celeberrimo "Viandante sul mare" di Friedrich o i dipinti di Magritte caratterizzati dalla figura ricorrente dell'uomo con bombetta, visto di spalle. Ritroviamo quell'idea di estasi e solitudine, unita ad una potente visione onirica che attrae e al tempo stesso ci spinge ad andare oltre il visibile, a cogliere il significato nascosto delle cose.
Pennellate morbide e lunghe si raccordano a tratti più corposi, quasi materici, scomponendosi in rapidi e piccoli tocchi in determinati punti del quadro. La luce, elemento prevalente e ricorrente nella pittura di Murgia, si manifesta come altra importante protagonista. Accentuando l'aspetto scenografico, nonché la poeticità, essa guida l'occhio dell'osservatore verso la sommità del dipinto, contraddistinta da un moto che suggerisce quasi la presenza di una brezza leggera e dal paesaggio di fulgido chiarore che sembra proprio convergere verso il centro… verso l'energia inebriante che scaturisce dall'uomo stesso. Un messaggio forte che l'artista in qualche modo infonde sulla tela: siamo noi stessi energia, sorgente di luce e dall'oscurità della morte risaliamo verso quella "Bellezza" che Murgia immagina sottoforma di una luce bianca travolgente, dirompente, rasserenante, unificante.
Il tutto viene ulteriormente corroborato dalla presenza di piccolissimi granelli di polvere luccicante, che posti su determinati elementi del dipinto, incantano letteralmente l'osservatore, entrando immediatamente in dialogo con esso, acuendo le suggestioni emotive generate dal loro bagliore.
Quasi a fare un compendio delle teorie filosofiche e religiose riguardo al mistero dell'esistenza, Murgia pone in questo dipinto il confronto tra la vita terrena ed ultraterrena, tra la staticità e il movimento, segnando simbolicamente il confine tra queste due prospettive attraverso un tetro muro di pietra dal quale filtrano piccoli fasci luminosi forieri di vita e di meraviglia. Colpisce il virtuosismo tecnico dell'artista nel rappresentare così realisticamente la luce, trasformandola allo stesso tempo in un elemento onirico, magico, sacrale.
In un dialogo silenzioso con la realtà che si prospetta dinnanzi a lui, l'uomo di spalle si erge, quasi in punta di piedi, su una scala a pioli in legno per mezzo della quale si accinge ad oltrepassare il muro della morte che lo separa da cotanta magnificenza.
Proprio la scala assume una valenza potentissima: funge da raccordo tra due realtà opposte, indicando movimento e dunque vitalità e rimandando all'idea di ascensione verso il divino o livelli cosmici superiori. La simbologia è chiaramente riconosciuta e descritta dalle diverse dottrine: dai testi biblici, a partire dal sogno di Giacobbe, dalla letteratura, basti pensare alla Divina Commedia di Dante, fino ad arrivare alle teorie massoniche ed esoteriche. È simbolo per eccellenza di comunicazione tra terra e cielo, di un percorso di trasformazione interiore che ovviamente non è esente da difficoltà.
Altre simbologie si riscontrano tra le fitte pieghe della vegetazione in cui intravediamo piccole bolle, rappresentanti la fragilità dell'esistenza, che fluttuano intorno alla pianta del cardo, da sempre emblema di solitudine per via della sua tendenza a nascere in luoghi impervi e di difficoltà (espressa dalle sue spine), ma anche di morte e rinascita, dovuta alla sua capacità di ricrescere una volta recisa. Allo stesso modo, anche l'edera che avvolge così rigogliosa il muro di pietra con le sue foglie a forma di cuore ci rimanda ai sentimenti che contraddistinguono la nostra vita terrena: a quell'amore che, a differenza del tempo che ci è concesso in vita, rimarrà per sempre, donandoci finalmente quell'immortalità agognata.
Francesca Callipari
Critico d'arte e curatore mostre