Icaro di Antonio Martone: la libertà, l'illusione e il sogno
"Ho scritto queste pagine perché mi piacerebbe che qualcosa della mia vita rimanesse" e "pur essendo consapevole della vacuità ridicola di un gesto simile, neppure io - l'ho già detto - posso identificarmi totalmente col nulla." - coraggio, siamo in tanti, come te, in attesa di quel prodigio...
di Emanuela Zitti
In Icaro del Prof. Martone ho ritrovato molte delle osservazioni che altri lettori prima di me, con acume e sapienza, hanno già ben evidenziato, e pertanto non le ripeto. Vorrei ribadire però un punto fondamentale, soprattutto a beneficio di chi si accinge a leggere il libro: la sua scrittura è quanto di più lontano si possa pensare dall'idea leggera di letteratura, che oggi va per la maggiore. La sua letteratura somiglia piuttosto al bisturi dell'anatomopatologo che indaga le cause della malattia del vivere contemporaneo. Una malattia mortale, come i protagonisti delle tre storie dimostrano; non perché soccombano fisicamente, ma perché appaiono devastati dalla loro personale esperienza del dolore, come al passaggio di un uragano.
Ad un certo punto della loro storia, infatti, essi sembrano svanire nel nulla: si dileguano come ombre nell'Ade e lo fanno con le terribili parole con cui ciascuno di loro conclude il racconto della propria biografia. Se questi racconti fossero un film, in ciascuno di essi, la scena finale si chiuderebbe con l'immagine di una figura in dissolvenza. E alla fine rimarrebbe nello spettatore una profonda amarezza, mista però ad una sensazione di felicità lontana, sfiorata e perduta...
"dirigere il tempo, gestire le innumerevoli maschere necessarie alla vita di un uomo: che follia è mai questa!"
(Icaro, Antonio Martone)
Naturalmente si tratta di personaggi drammatici, quasi inabissati nelle loro contraddizioni. Personaggi che non sembrano avere nome e identità, in lotta perenne col loro vuoto interiore e con l'insensatezza esistenziale che ne deriva. Sembrano anche estremi questi suoi personaggi; non perché le loro vite si svolgano ai margini della cosiddetta normalità (ad eccezione forse della protagonista di Estasi e Follia), ma proprio perché lambiscono, guardandolo in faccia impietosamente e senza infingimenti, i margini crudi di quel vuoto che custodiscono e da cui si sentono continuamente risucchiati.
Se il vuoto è la loro essenza, è l'insensatezza mista all'inadeguatezza, se non ad una vera e propria inettitudine, il loro sentimento fondamentale del vivere. In questo senso, allora, soltanto le maschere potranno costituire strumento utile alla sopravvivenza e alla convivenza civile. La differenza tra i suoi personaggi e il resto del mondo, mi sembra di poter dire, sta proprio nella consapevolezza della necessità e della funzione sociale della maschera; consapevolezza che ognuno elabora a modo suo e che li rende perciò autentici. L'autenticità, però, non è affatto una condizione stabile, ma soltanto una possibilità, rara e fugace, in cui ciascuno di loro scopre la libertà fondamentale di essere sé stesso: o nell'amore che sembra durare un sol giorno, soffocato dall'impossibilità e dal senso di colpa, come nel primo racconto; o nella riconquista di sé dopo un amore tossico e opprimente, come nel secondo; oppure nell'appartenenza al grande mistero dell'Universo, a cui l'"Estasi" (e la follia) della protagonista dell'ultimo, permettono di accedere.
La libertà di cui parla questo suo secondo volume ad essa dedicata sembra avere il gusto amaro dell'illusione. Essa però ci fa immaginare, come già accadeva per il Sisifo di Camus, la possibilità e la necessità di un Icaro felice. E dunque, se il mito non è "una favola bella" ma un paradigma di verità e se, grazie al mito, abbiamo immaginato Icaro volare felice verso il sole, anche se soltanto nel solo istante in cui ha assaporato la libertà prima di inabissarsi per sempre nel mare, nulla vieta allora, che tutti gli uomini e le donne possano, anche nel nostro tempo triste, almeno una volta nella vita, conoscere la felicità di buttare le maschere e poter finalmente volare via dal labirinto della mediocrità o della paura, proprio come un tempo accadde nel mito e poi nei nostri sogni di bambini.
Dott.essa Emanuela Zitti